Ivan P. Pavlov

Ho ripreso in mano un libro sempre presente, come curiosità. nei miei pensieri. Trattasi di “Il cervello emotivo – Alle origini delle emozioni-” di Joseph LeDoux (Baldini Castoldi 2004). E’ un libro nel complesso piacevole ed utile anche se lo definirei come: dai mille pregi e dagli altrettanti possibili limiti. Ma non è di questo che voglio parlarvi. Il volume oltre a criticare alcuni aspetti del cognitivismo rivaluta positivamente le figure di Freud e di Pavlov (anche se non senza limiti), ma nemmeno questo è l’oggetto del mio interesse.

Quello che voglio porre alla vostra attenzione è una curiosità’, probabilmente sconosciuta a LeDoux che avrebbe potuto aiutarlo in una diversa visione di alcuni problemi. Non è detto sarebbe successo, non è detto che io abbia ragione ma…una curiosità è sempre una curiosità. Vale la pena di conoscerla.

Il passo del libro che vi sottolineo si trova a pag.299 inserito nel contesto della plasticità neurale e della formazione della memoria: “Grazie alle nuove tecniche dell’ingegneria genetica, si sono creati degli animali privi del gene che produce il cAMP (sostanza chimica cruciale per la memoria o per alcune sue forme – ndr). Come ha dimostrato Tim Tully, i moscerini della frutta che ne sono privi mostrano un’amnesia per certe procedure di memoria a lungo termine.”

Ora una domanda sorge ‘ovvia e spontanea’: Tim Tully oltre ad interessarsi di ingegneria genetica, cosa faceva da bambino? Con chi giocava?. Per motivi di spazio ritengo impossibile risalire all’infanzia di questo studioso ma se la curiosità vi è stata sollecitata fate in piccolo sforzo e leggete il seguente articolo:

 

LE DROSOFILE DI TULLY E I CANI DI PAVLOV . Dall’America alla Russia a caccia dei nomi dei cani di Pavlov. La storia di un ricercatore originale, e dei suoi studi sui moscerini (18 marzo 2003 Margherita Fronte)

Tim Tully ama i cani da quando era bambino, e i moscerini da quando ha iniziato a studiare biologia. Con i cani andava a caccia nel Midwest degli Stati Uniti, assieme al fratello. Le drosofile, invece, gli servono per i suoi studi di genetica, che riguardano l’apprendimento e la memoria associativa. Non sorprende, quindi, se Tim Tully, che vanta un curriculum scientifico di tutto rispetto, sia anche un appassionato ammiratore di Ivan Pavlov, “il famoso psicologo” russo che concepì un paradigma sperimentale semplice ed elegante con cui studiare la memoria” scrive Tully sul numero di febbraio della rivista Current Biology, che ospita anche un paper con i risultati ottenuti con il suo gruppo, al Cold Spring Harbor Laboratory di New York. “A più riprese, Pavlov faceva suonare una campanella poco prima di nutrire un cane affamato. Dopo un po’ notò che la salivazione dell’animale aumentava ogni volta che suonava la campanella. Pavlov interpretò la reazione come un’indicazione del fatto che il cane aveva imparato ad associare quel suono al cibo, e così nacque il concetto di memoria associativa”. Il lavoro scientifico di Tim Tully ha molto a che fare con gli esperimenti che Pavlov presentò a Madrid nel 1903, di fronte a una platea incredula e stupita. Tully, infatti, fa sostanzialmente la stessa cosa con le drosofile, associando odori a stimoli tattili, a caccia dei geni responsabili del fenomeno scoperto dallo scienziato russo. In questo modo ha individuato fino a oggi una sessantina di mutanti collegati alla memoria associativa.

Questa ricerca è proceduta di pari passo con un’altra indagine un po’ meno consueta per un genetista, che ha portato Tully all’altro capo del mondo per scoprire i nomi dei cani di Pavlov. Alla fine degli anni ottanta, Tully si era infatti convinto che “Pavlov doveva voler abbastanza bene ai suoi cani da dargli un nome”. E così si mise in testa di recuperare quel pezzo di storia, e di dare ai suoi moscerini mutanti il nome dei migliori amici dello scienziato russo. D’altra parte, Tully non era nuovo a trovate di questo tipo. Da studente, aveva comprato un cane basset houd, di quelli con le orecchie flosce e le gambe storte, e lo aveva chiamato Weldon, come il genetista inglese che all’inizio del secolo scorso studiò (fra le altre cose) come i colori del manto dei basset houd si tramandano da una generazione all’altra.

La nuova impresa era però più ardua. Restando negli Stati Uniti, Tully riuscì a recuperare un solo nome: Bierka. Fu così che, nel 1988, chiese aiuto a Ivan Balaban, un collega moscovita. Scartabellando fra gli articoli originali di Pavlov, Balaban scoprì altri 21 nomi, due dei quali furono prontamente attribuiti da Tully alle sue drosofile mutanti. Fino ad allora il ricercatore aveva identificato solo quattro mutanti, ma era convinto che a un fenomeno complesso come quello della memoria associativa dovesse essere collegato un numero cospicuo di geni, e che i suoi studi lo avrebbero portato a scoprirne molti altri. I 21 nomi di cui disponeva non sarebbero quindi stati sufficienti. Bisognava trovare anche gli altri. “Mi ero appena trasferito al Cold Spring Harbor Laboratory, nell’autunno del 1991, quando fui invitato a tenere un seminario all’Istituto Pavlov di Koltushi  (vedi scheda) da Elena Savvateeva e Nicholas Kamyshev” scrive Tully. “Accettai, sapendo che quel viaggio sarebbe stato la mia ultima occasione di trovare i nomi dei cani di Pavlov”.

L’incontro con una Russia appena uscita dagli anni del comunismo non fu semplice, e Tim si ammalò per aver bevuto acqua contaminata. Fu ospitato da Valentina Ponomarenko, che dirigeva il laboratorio di Nicholas, che si prese cura di lui e lo aiutò nella sua missione, spiegando ai colleghi l’obiettivo del viaggio del ricercatore statunitense. Gli sforzi tuttavia non sembravano portare a nulla, e dopo qualche tempo Tully si rassegnò a fare il turista, dedicando il tempo che gli restava a visitare San Pietroburgo. “Passai tre giorni all’Hermitage, la collezione di quadri e sculture più straordinaria che abbia mai visto” scrive Tully su Current Biology.”

Poi, l’ultimo giorno, Elena mi chiese se volevo visitare la casa di Pavlov. Ero stanco di girare, e non ne avevo nessuna voglia; ma dovevo essere gentile, e così accettai. Il posto mi sembrava in rovina. La curatrice, Nonna Volkova, era una donna piacevol e attraente. Sentii che Elena le spiegava la mia missione. Lei rispose: “Bè, se vuoi sapere qualcosa sui cani di Pavlov possiamo sederci e parlarne di fronte a un tè con i

biscotti”. (…) Ci sedemmo in cucina, e Nonna preparò il tè e servì i biscotti. Poi, senza dire una parola, andò verso uno stanzino, tirò fuori un album di fotografie e me lo porse. All’interno c’erano le foto dei cani di Pavlov. Quaranta di loro, con il nome scritto in russo! In risposta al mio silenzio sbigottito, Nonna mi disse che quell’album era un regalo che uno studente aveva fatto a Pavlov per il suo ottantatreesimo compleanno. (…) Poi fece una cosa indimenticabile. Mi permise di indossare il cappello da sera di Pavlov – forse sapendo che questo un giorno mi avrebbe dato l’ispirazione per raccontare la storia. Ed è stato proprio così”.

 

Ora che avete letto, sempre che lo abbiate fatto, vi meritate un premio e cioè tutte le foto, o quasi, dei cani di Pavlov così come Tully le recuperò (cliccare qui). Accanto alle foto sono riportati anche dei diagrammi riferentesi alle varie caratteristiche dei cani e alla loro capacità di ritenere il ‘condizionamento’ dei vari riflessi. (possiamo chiamarla memoria?). Guardate:i-cani-di-pavlov.

 

Sarebbe bene che accanto alle foto dei cani si riuscisse anche a recuperare appieno il pensiero do Pavlov ma… questa è un’altra storia!

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